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Cambiate la conversazione sull’Alterizzazione e Appartenenza

L’alterizzazione e il suo opposto, l’appartenenza, sono il problema del XXI secolo. In un mondo assediato da sfide apparentemente intrattabili e schiaccianti, praticamente ogni conflitto globale, nazionale e regionale è avvolto o organizzato intorno a una o più dimensioni della differenza di gruppo. L’alterizzazione è alla base delle dispute territoriali, della violenza settaria, dei conflitti militari, della diffusione delle malattie, della fame e dell’insicurezza alimentare e persino dei cambiamenti climatici. E’ l’atto di creazione di “un altro”, identificato appositamente come diverso da noi e, per questo, ostracizzato.

 

 

Il termine “alterizzazione”, battezzato dalla scrittrice Premio Nobel Toni Morrison, nel suo libro L’origine degli altri, non solo comprende le numerose espressioni di pregiudizio basate sull’identità di gruppo, ma sostiene che esso fornisce una cornice chiarificatrice che rivela un insieme di processi e condizioni comuni che propagano la disuguaglianza e la marginalità basate sui gruppi. Sebbene particolari espressioni di alterità, come il razzismo o l’etnocentrismo, siano spesso ben riconosciute e riccamente studiate, questo fenomeno più ampio non è adeguatamente riconosciuto come tale.

L’ ‘”alterità” è un concetto intrinseco a una persona o a un gruppo, mentre l’alterizzazione è un insieme di dinamiche, processi attivi e strutture che generano marginalità e disuguaglianza persistente in tutta la gamma di differenze umane basate sulle identità di gruppo. Le dimensioni dell’alterizzazione includono, ma non si limitano a, religione, sesso, razza, etnia, status socioeconomico (classe), disabilità, orientamento sessuale e colore della pelle. Sebbene gli assi di differenza alla base di queste espressioni di alterizzazione varino notevolmente e siano profondamente contestuali, essi contengono una serie di dinamiche di fondo simili.

Nelle mie sessioni di mentoring parlo spessissimo di come i cambiamenti del mondo stiano creando profondo stress e ansia e come questo processo sia destinato ad aumentare nel prossimo futuro. Questo stress e questa ansia sono sia di ordine biologico che ontologico. Il modo in cui rispondiamo, invece, è di ordine sociale. La questione di fondo è chi siamo, qual è il nostro rapporto con l’altro e perché sentiamo il bisogno di creare “un altro”,  individuabile, riconoscibile, additabile e facile da ostracizzare. Un “altro configurato” che sia messo a margine della collettività “normale”, in modo che colui che si inscrive in questa norma comune trovi  la sua definizione e la sua identità.

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La paura di essere stigmatizzati come non conformi, ufficialmente propagata e coltivata nella società disciplinare, è stata sostituita, nella società della prestazione dalla paura di rivelarsi inadeguati. Gli individui formalmente emancipati si ritrovano sostanzialmente incapaci di affrontare le prove e i tormenti di una vita completamente individualizzata. (Z. Bauman, Stranieri alle porte). Art by Olga Mrozek for OBI x Fine Acts

 

Una risposta potrebbe essere sociologica e cioè che l’altro sia socialmente una minaccia da temere e contenere. L’altra risposta potrebbe, invece, essere psicologica o, per chi preferisce, profondamente spirituale: “l’altro” è un accesso a un noi più grande e a un aspetto profondo di noi stessi.

Viviamo in un contesto della prestazione, della individualizzazione e delle leggi di mercato, dove ognuno ha una valenza in quanto produttore e consumatore. Siamo passibili di classificazioni come individui deboli e inutili e questo ci relega tra quei reietti posti all’ultimo gradino della scala sociale. Facciamo così i conti con i nostri limiti, la nostra inutilità. Ecco che il bisogno di alterizzazione, di creare l’altro, di identificare un altro diverso da noi, si fa necessario, ci permette di allontanare il disprezzo di sé insito in ognuno di noi e rovesciarlo sull’elemento estraneo. E diventa necessario anche l’accettazione da parte di un gruppo comunitario, di una collettività per avvalorare questa identità, che confermi quella norma che, per erigersi, ha  bisogno  dell’esclusione degli elementi estranei.

Spesso ci affidiamo al confronto piuttosto che alla collaborazione quando discutiamo il tema dell’appartenenza e dell’inclusione sul posto di lavoro.

È comprensibile se non siamo d’accordo su come creare inclusione e appartenenza. Il vero problema è che non ci ascoltiamo più l’un l’altro, invece ci etichettiamo a vicenda. Ad esempio, invece di ascoltare il punto di vista di una persona, ci affrettiamo ad etichettare la convinzione di qualcuno come “notizie false” o “teoria del complotto”. Quindi associamo quella persona alle nostre connotazioni di quei termini senza pensare. Etichettiamo “altro” quella persona, definendola ignorante e al di fuori del nostro gruppo sociale “in”.

Questo è vero sul posto di lavoro come nel resto della società. E questo offre ai datori di lavoro sia una sfida che un’opportunità.

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Per gli esclusi che sospettano di essere ormai relegati tra gli ultimi, scoprire che sotto di loro c’è qualcun altro è una sorta di evento salvifico, che restituisce loro dignità umana e salva quel poco che rimane della loro autostima (Z. Bauman, Stranieri alle porte). Art by Sakina Saïdi for OBI x Fine Acts

Una risposta potrebbe essere sociologica e cioè che “l’altro” sia socialmente una minaccia da temere e contenere. L’altra risposta potrebbe, invece, essere psicologica o, per chi preferisce, profondamente spirituale: “l’altro” è un accesso a un noi più grande e a un aspetto profondo di noi stessi.

Viviamo in un contesto della prestazione, della individualizzazione e delle leggi di mercato, dove ognuno ha una valenza in quanto produttore e consumatore. Siamo passibili di classificazioni come individui deboli e inutili e questo ci relega tra quei reietti posti all’ultimo gradino della scala sociale. Facciamo così i conti con i nostri limiti, la nostra inutilità. Ecco che il bisogno di alterizzazione, di creare “l’altro”, di identificare un “altro” diverso da noi, si fa necessario, ci permette di allontanare il disprezzo di sé insito in ognuno di noi e rovesciarlo sull’elemento estraneo. E diventa necessario anche l’accettazione da parte di un gruppo comunitario, di una collettività per avvalorare questa identità, che confermi quella norma che, per erigersi, ha  bisogno  dell’esclusione degli elementi estranei.

Spesso ci affidiamo al confronto piuttosto che alla collaborazione quando discutiamo il tema dell’appartenenza e dell’inclusione sul posto di lavoro.

È comprensibile se non siamo d’accordo su come creare inclusione e appartenenza. Il vero problema è che non ci ascoltiamo più l’un l’altro, invece ci etichettiamo a vicenda. Ad esempio, invece di ascoltare il punto di vista di una persona, ci affrettiamo ad etichettare la convinzione di qualcuno come “notizie false” o “teoria del complotto”. Quindi associamo quella persona alle nostre connotazioni di quei termini senza pensare. Etichettiamo “altro” quella persona, definendola ignorante e al di fuori del nostro gruppo sociale “perfetto“.

Questo è vero sul posto di lavoro come nel resto della società. E questo offre ai datori di lavoro sia una sfida che un’opportunità.

Alla ricerca di appartenenza

La maggior parte dei lavoratori desidera promuovere l’inclusione e l’appartenenza per tutti, ma potrebbe non essere d’accordo su come arrivarci. Ad esempio, le persone di un gruppo dominante,  sul posto di lavoro, vogliono sentirsi apprezzati ed appartenenti al loro contesto e potrebbero considerare le iniziative di “Diversity & Inclusion” come escludenti. Allo stesso modo, le donne e i dipendenti neri vogliono sentirsi apprezzati e inclusi e potrebbero considerare l’incapacità di discutere di razza, etnia o genere sul posto di lavoro come un volerli escludere.

Tutti i gruppi alla fine vogliono la stessa cosa: appartenere, contribuire, essere produttivi e sentirsi apprezzati. È da quell’insieme comune di valori che i datori di lavoro possono invertire l’alterizzazione, anche quando c’è disaccordo.

La  paura

Può succedere, anche, che si inneschi un certo meccanismo di paura in cui se non ci difende dall’altro si diventerà in qualche modo irrilevanti o ignorati. Questa idea spesso si basa sulla convinzione che se la tua prospettiva prende piede, allora non sono più rilevante. L’esperienza di appartenenza di qualcun altro, quindi, dipende dal fatto che tu venga messo a tacere.

“L’altro” può mettere radici quando alcuni lavoratori sentono che qualcosa gli viene portato via se un altro gruppo sta guadagnando riconoscimento sul posto di lavoro. Abbracciare l’appartenenza e l’inclusione invia il messaggio che c’è spazio per tutti.

 

Sfortunatamente, le iniziative “Diversity & Inclusion” sono spesso intrappolate in un gioco politico di “alterizzazione” che spesso mette in contrasto i colleghi e crea una mentalità “noi contro loro“. Ad esempio, alcuni credono che sostenere la diversità sia una grave minaccia per lo stile di vita nel contesto etnico/razziale perché divide le persone per razza.

Altri credono che se non si riconoscono e si discutono le disuguaglianze, alcuni gruppi continueranno a essere emarginati, cosa che secondo loro rappresenta una seria minaccia per la serena convivenza. In realtà, entrambi i gruppi vogliono la stessa cosa: l’appartenenza.

“Altro” oltre la Diversity & Inclusion

L’Alterizzazione non riguarda solo la Diversity & Inclusion. Di recente, un politico ha raggruppato le opinioni di un partito politico come squadra “normale” e l’altra come squadra “pazza” e ha chiesto alle persone di allinearsi con la squadra “normale” o “pazza”. Chiaramente, c’è un’ampia gamma di punti di vista che vale la pena considerare sia nella squadra “normale” che nella squadra “pazza”, ma queste etichette alzano un muro che blocca l’empatia, la compassione e l’ascolto.

Perché crediamo a queste storie o messaggi che creano “altro” anche sul posto di lavoro? Creiamo i nostri muri guardando, ascoltando o leggendo fonti di notizie o informazioni che mantengono la distanza tra gruppi con credenze diverse. Questo ci consente di rimanere nascosti gli uni dagli altri ed evitare di venire sfidati o respinti sui nostri punti di vista. Vogliamo tutti essere accettati per quello che siamo.

Cambiamo la conversazione

Cosa possono fare i leader aziendali per invertire la traiettoria dell’alterizzazione e favorire l’appartenenza e l’inclusione sul posto di lavoro?

Possono abbracciare la propria vulnerabilità e dare alla forza lavoro il permesso di fare lo stesso. Possono comprendere le proprie storie e sentirsi a proprio agio nel rimuovere le proprie maschere. I buoni leader riconoscono che man mano che il mondo diventa più piccolo a causa della globalizzazione e dei rapidi cambiamenti tecnologici e demografici, promuovere un senso di appartenenza condiviso non è solo la cosa giusta da fare, è semplicemente un buon affare.

Creare appartenenza non significa essere politicamente corretto. Si tratta di abbracciare un mondo e una forza lavoro sempre più diversificati. E significa avere il coraggio di abbracciare la vulnerabilità e costruire una cultura di appartenenza per tutti, anche quando non siamo d’accordo.

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