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Cosa ci insegnano i passi indietro nell’inclusione di Harley-Davidson & Jack Daniel’s

 

Ho atteso un bel po’ prima di pronunciarmi sul caso Harley-Davidson e Jack Daniels, anche per le modalità e le dinamiche con cui si sono svolti i fatti.

Come molti di voi sanno molte aziende americane, tra cui, appunto, Harley Davidson e Jack Daniel’shanno deciso di cambiare le proprie politiche interne in tema di diversità e inclusione. Anzi, più che cambiare, hanno proprio cancellato, con un colpo di spugna,  tutte le funzioni dedicate alla “DEI” e hanno dichiarato di non prevedere il rispetto di quote per quanto riguarda le assunzioni riservate a donne e a minoranze, che in futuro verranno effettuate tenendo in considerazione solo il talento necessario all’azienda. Smetteranno di sponsorizzare iniziative di inclusione, quote di inclusione e di adoperare fornitori che siano certificati verso l’inclusione. Dismetteranno anche il training delle risorse su diversità ed inclusione, disconosceranno l’Human Rights Campaign e le sue bocciature woke, soprattutto, manterranno una politica di assunzione basata unicamente sulle competenze.

Motivo? A causa delle pressioni da parte di giornalisti e politici conservatori. In particolare quelle di Robby Starbuck, blogger e attivista iper-conservatore, accanito accusatore delle pratiche DEI da parte delle imprese che più incarnano l’American way of life. Non se la sentono di spaccare le loro comunità e i loro consumatori invisi perché polarizzati su un tema che tocca le corde più nervose di discriminatori e discriminati.

Prima, le multinazionali americane hanno lanciato programmi del DEI sull’onda delle proteste del Black Lives Matter del 2020, ma questo “wokismo” esasperato ha sempre più suscitato divisioni e insofferenza, rendendo i confronti divisivi e alquanto polemici. I sostenitori delle politiche DEI affermano che tali programmi aiutano a portare più donne e minoranze nel mondo del lavoro e nelle università. Dall’altro lato, gli oppositori affermano che troppo spesso si innescano esclusioni, frenando le  opportunità per gli uomini bianchi etero, anche quando sono candidati migliori. Sebbene i sondaggi mostrino un ampio sostegno pubblico al DEI, gli elettori si oppongono anche al fatto che le aziende siano troppo coinvolte nella politica.

Praticamente, come ci ricordava qualcuno, l’inclusività è bella fin quando non esclude. Una fetta di mercato e i profitti, però, in questo caso.

 

Ma, nella mia personale riflessione, il punto, non è questo. Questa situazione, in particolare, mi rammenta quanto sia difficile trovare un equilibrio in quella che viene definita la politica dell’identità e di quanto poco coraggio ci si investa per percorrere la strada di “convivenza” e “celebrazione” delle diversità.

 

Ci riempiano tutti la bocca di questi concetti pur non avendone ben chiara la matrice, il processo e l’eventuale visione di un accomodamento del rispetto reciproco. Persone che hanno studiato terminologie ed epistemologie sui libri, ragionamenti filosofici e astratti su un tema che, invece (purtroppo per chi ne è dentro) avrebbero il loro senso più profondo nell’esperienza e nella devastazione che le conseguenze portano a qualsiasi essere cosiddetto “diverso” (dallo standard, ovviamente).

 

Ogni volta affronto questi temi ho un’ala indisponente di audience che spazia da un “la fai troppo esagerata” a un “siamo tutti uguali” a un “non vedo colore”. Senza contare coloro che di discriminazioni, razzismo e vessazioni non ne hanno mai sentito parlare se non in qualche film alla “Kunta Kinte – Radici” o “Il colore viola”. Per non parlare, ancora,  di coloro che, investiti della massima carica in qualche ONG sperduta in terre sommerse, se ne escono con “ho una grande esperienza in queste cose”, vista però dalla prospettiva del  candore della propria pelle nivea, bianchissima e immacolata e dai privilegi di essere la parte dominante che tanto ha dettato leggi, leggine e leggette da secoli seculorum al pianeta intero.

 

Ma ok! Usciamo anche da questo imbuto dal sapore lontanamente accusatorio pena essere tacciata di far prendere il mio pensiero “sul personale” a qualche anima pia e innocente dalla coda di paglia. Andiamo oltre e magari diamo adito a quello che attualmente è un’utopia nel naturale preogredire della nostra evoluzione individuale e sociale. La completa convivenza delle nostre differenze in pace e armonia.

Parliamoci francamente! La politica dell’identità, pur essendo un aspetto importante dell’identità personale e di gruppo, non funziona perché non riesce a risolvere le complesse questioni della diversità e dell’inclusione. Perseguire diritti per i gruppi minoritari così come sta avvenendo, con tal aggressività e fanatismo, esplicitamente e sottilmente, non ci porterà da nessuna parte ed affidarsi solo ad essa spesso porta alla polarizzazione, all’eccessiva semplificazione e all’esclusione, anziché favorire una vera comprensione e un cambiamento strutturale. Per affrontare efficacemente i temi della diversità e dell’inclusione, è essenziale andare oltre le identità politiche e impegnarsi in sforzi più profondi e sfumati che considerino l’intera gamma di esperienze umane e di fattori sistemici.

 

La politica dell’identità ci mette dinnanzi ad alcune dinamiche quali:

  • La polarizzazione e divisione: un “noi contro loro”, in cui le persone sono divise in gruppi opposti in base alle loro convinzioni politiche. Questa polarizzazione può ostacolare un dialogo significativo e la cooperazione attraverso le differenze. Invece di favorire l’inclusione, l’identità politica spesso approfondisce le divisioni e inasprisce le tensioni all’interno di gruppi diversi.

 

  • La semplificazione eccessiva di identità complesse in cui gli individui vengono ridotti a un singolo aspetto della loro identità (ad esempio, liberale, conservatore), trascurando la complessità delle esperienze e delle identità multiple delle persone (come razza, genere, religione, status socioeconomico). Gli sforzi per la diversità e l’inclusione richiedono di riconoscere e affrontare queste identità sfaccettate, cosa che l’identità politica da sola non può fare.

 

  • Rischio di esclusione delle voci dissenzienti, di coloro che non sono allineati con la prospettiva politica dominante, alienando, invece, individui che potrebbero avere prospettive diverse, ma comunque valide, su come raggiungere l’inclusione, minando così gli obiettivi delle iniziative per la diversità.

 

  • Inflessibilità e dogmatismo delle opinioni degli individui o dei i gruppi impedendo discussioni aperte e la volontà di prendere in considerazione prospettive alternative, che sono fondamentali per un’autentica inclusione e comprensione in ambienti diversi.

 

  • Focalizzazione degli obiettivi a breve termine (come avvenuto in questo caso Harley-Jack Daniels) che cambiano, principalmente, con i cicli elettorali e finalizzati a conquistare punti politici. La DEI, invece, richiede sforzi sostenuti e a lungo termine, che vanno oltre le vittorie o le sconfitte politiche e che mirano a creare cambiamenti duraturi e significativi.

 

  • Diffidenza e paura. Quello che succede molto spesso (ahimè) quando affronto la tematica nelle Aziende o Istituzioni Scolastiche poco coraggiose. Le persone sentono che la loro identità politica è minacciata dalle iniziative di diversità e inclusione e reagiscono con diffidenza o paura. Se gli sforzi per la diversità sono percepiti come politicamente motivati, possono incontrare resistenza, rendendo più difficile il raggiungimento degli obiettivi di inclusione.

 

  • Scopo limitato di affrontare le questioni sistemiche e istituzionali che contribuiscono alla disuguaglianza poiché l’identità politica spesso si concentra su problemi individuali o di gruppo. Un lavoro efficace sulla diversità e l’inclusione richiede cambiamenti strutturali, che l’identità politica da sola non è in grado di affrontare.

 

  • Tokenismo e simbolismo piuttosto che cambiamenti sostanziali. Ad esempio, la promozione di candidati o di politiche per la diversità per il gusto di apparire politicamente può portare al tokenismo (gruppi di maggioranza reclutano, all’interno di un determinato contesto, persone appartenenti a gruppi di minoranze – etniche o di genere – per lanciare un messaggio di inclusività, che molto spesso si rivela essere falso), che mina la vera inclusione e non affronta le questioni più profonde in gioco.

 

  • Eccessiva enfasi sulla politica dell’identità che, da un lato, può sensibilizzare sull’importanza della rappresentanza, dall’altro può ridurre la diversità e l’inclusione a una questione esclusivamente identitaria, senza affrontare i più ampi fattori sociali, economici e culturali che influenzano l’inclusione. Questo può portare a un approccio ristretto che non risolve completamente i problemi in questione.

Le società di successo richiedono alti livelli di fiducia. Una società basata sulla fiducia è quella in cui le persone hanno abbastanza punti in comune da sapere che hanno obiettivi condivisi, valori condivisi, convinzioni condivise, e quindi possono fidarsi delle motivazioni degli altri. Ecco perché la politica dell’identità è così distruttiva. Enfatizzare le differenze sotto la copertura della “diversità” è un cavallo di Troia che indebolisce i legami di fiducia.

Le differenze sono inevitabili ma oggi portano un nuovo nome: diversità, appunto, che diviene la panacea di un’auspicabile “società perfetta” in cui si “tollera”, “integra” e “include” l’altro. La linea di demarcazione tra società deboli e forti è che quelle forti permettono ai loro aderenti di “convivere” con le differenze e di ricercare la comunanza, non di celebrarle o usarle per segregare la popolazione. Non dovremmo insegnare ai nostri figli a vedere ciò che ci divide. Questo genera sfiducia. E questo, inevitabilmente, ci porta a un viaggio verso un livello di depravazione che inizia quando una comunità si impone sulle altre, quando la sua richiesta di diritti soffoca la conversazione nazionale.

Abbiamo tutti un dovere di attenzione e di civiltà nei confronti dei nostri vicini, indipendentemente dalla loro etnia, religione o provenienza. Tutti noi siamo liberi di praticare le nostre fedi e celebrare le nostre culture, ma dobbiamo farlo in modo coerente con i valori fondamentali, come lo Stato di diritto, che sono la base di ogni paese. Una società con poca fiducia rende impossibile qualsiasi rapporto con le istituzioni e con il mondo delle imprese.

I miei figli Mixed non devono essere costretti a vivere in un mondo in cui devono scegliere da che parte stare. La mia visione è quella di un mondo in cui tutti i nostri figli siano a loro agio gli uni con gli altri e amino il loro Paese e la sua complessa storia.

Meritano un Paese in cui il colore della pelle non sia più importante del colore dei capelli o degli occhi, e questo è ciò per cui ho lottato ogni giorno e per cui continuerò ad agire con i progetti di Métissage Sangue Misto e Métissage Dynamics©.

 

Luisa Casagrande | Senior Mentor & Trainer Métissage Dynamics©

We develop experiences that make people’s lives simple

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