“La vittoria ha cento padri, mentre la sconfitta è orfana”. Che l’abbia citato Tacito, Keats, Caleazzo Ciano o J.F. Kennedy, poco importa! La sostanza del concetto è semplicemente quella di ricordarci come, quando le cose vanno bene, sia facile trovare sostegno, probabilmente e ironicamente perché non se ne ha davvero bisogno. Invece quando le cose sono difficili, improvvisamente, le opzioni scompaiono. Parafrasando pure alla larga, quando si raggiungono obiettivi importanti o si riesce finalmente a ottenere un successo, tutti provano a rivendicarne il merito; al contrario, quando perdiamo o anche quando commettiamo un semplice errore, tendiamo quasi sempre ad attribuire la colpa a qualcun altro.
“La cultura degli alibi”, come lo ha definito l’illuminante Velasco, un atteggiamento che mettiamo in scena per de-responsabilizzarci, nell’errata convinzione che sottolineare gli errori altrui possa sollevarci dalle nostre responsabilità. Alibi come scusa, come un pretesto profondamente legato alla crisi della responsabilità. E’ la trappola della “vittimizzazione” dove una persona mira a provare di non essere responsabile dell’errore.
Questo non è solo un pensiero triste e deprimente. E’ un vero e proprio ammutinamento verso la nostra capacità di sentirci padroni dei fallimenti, che sono parte normale della crescita, o del mancato raggiungimento degli obiettivi. Si entra in un loop surreale tra la mancanza di responsabilità e l’incapacità di “far accadere le cose”.
Ho iniziato ad introdurre uno spazio su questo tema tra gli adolescenti che frequentano le mie sessioni di mentoring perché trovo sia un’ottima base da cui iniziare a far comprendere come si possa fallire un obiettivo senza necessariamente diventare un perdente. La vita, lo sappiamo tutti fino alla nausea, è un’alternanza fra vittorie e sconfitte e questo concetto non fa altro che metterci, tutti, nella condizione di raggiungere i risultati oltre le difficoltà e le circostanze o affrontare l’insuccesso al riparo da quella cultura dell’alibi che rappresenta il più grosso ostacolo al miglioramento delle nostre prestazioni.
Mi piace ripetere il mantra “See it, Own it, Solve it e Do it” (esaustivamente predicato nell’utile libro “The Oz Principle: Getting Results Through Individual and Organizational Accountability” di Craig Hickman, Tom Smith, e Roger Connors) ai miei ragazzi perché davvero riassume, in 4 verbi, quello che è il viaggio di ciascuno verso la consapevolezza delle proprie potenzialità. Un viaggio che responsabilizza ai classici passaggi duali che la vita ci presenta: dall’ignoranza alla conoscenza, dalla paura al coraggio, dalla paralisi al potere, dal vittimismo alla responsabilità. Un viaggio che in quattro passaggi invita a perseguire con coraggio i propri obiettivi o reagire alle circostanze avverse che inevitabilmente si presentano sul percorso.
Per prima cosa dovete permettere a voi stessi di vedere il problema.
In secondo luogo, dovete assumerne la proprietà, sia che se il problema vi appartenga davvero o meno.
Poi si trova la soluzione migliore e agire per risolverlo.