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Guidare nello sport Atleti e Coach provenienti da contesti etnici, culturali e religiosi diversi

Momo è un baldo giovanotto nei suoi primissimi anni venti. E’ un Mixed Senegalese-Gambiano, figlio della diaspora africana, Italiano di seconda generazione (cittadinanza acquisita per motivi sportivi!) e gioca in una delle più promettenti squadre di pallacanestro nazionali. Il suo coach arriva a me grazie alla segnalazione di amici comuni e mi chiede aiuto perché è consapevole che il ragazzo soffra di qualcosa che a lui sfugge completamente, ma che sta compromettendo la sua performance. Momo è molto intuitivo ed è un atleta dalle altissime potenzialità, ma viaggia sempre ad un livello più basso delle sue possibilità e il suo coach non sa esattamente come aiutarlo.

 

 

Sono davvero grata a Coach Mario perché mi dà speranza. Mi rincuora il fatto che il grande impegno di parecchi di noi profuso in tutti questi anni stia prendendo la piega giusta, nonostante voragini di “non vedo colore” e abissi di “siamo tutti uguali”. Ci si comincia a rendere TANGIBILMENTE conto che l’Italia è una nazione in evoluzione e che il meticciato e la pluriculturalità ha un peso non indifferente in tutti gli ambiti sociali, professionali ed educativi.

 

 

Una tra le mie missioni è quella di mettere in contatto e ispirare le persone a sostenere con coraggio l’equità (razziale o culturale sia), la giustizia sociale ed economica per i neri, per le persone di colore diverso dal bianco dominante e per tutte quelle che si portano appresso un bagaglio pluri culturale. E questo vale anche nell’ambito dello sport, dove troppo spesso sfugge l’importanza di preparare mentalmente (oltre che fisicamente) gli atleti multiculturali e multirazziali che devono lottare con altre problematiche lontanissime da quelle della loro controparte di cultura dominante (vedi, per esempio, il razzismo nello sport che ho già raccontato qui ).

 

 

Capire che l’impatto psicologico sugli atleti e la loro salute mentale sono condizioni che possono incidere sul loro rendimento, è un atto coraggioso e di un’intelligenza particolarmente accogliente. Gli insulti razziali da parte dei tifosi, per esempio, o le discriminazioni a qualsiasi livello del gioco e i pregiudizi possono, in un contesto sportivo,  avere un impatto negativo sulla salute mentale, sul benessere e sulle prestazioni degli atleti, provocando rabbia, bassa autostima, frustrazione, ansia, depressione, disturbo post-traumatico da stress (PTSD), diminuzione della motivazione, della concentrazione e della fiducia in se stessi, sensazione di isolamento o di solitudine, difficoltà a raggiungere obiettivi personali e professionali, sensazione di impotenza e disperazione.

 

 

Come ho già sostenuto una miriade di volte, all’interno degli organi dirigenziali dello sport c’è chi sta cercando di fare un vero cambiamento. Ma il tutto risulta particolarmente difficile, quando tutti coloro che prendono le decisioni su cosa fare e quando fanno parte della parte dominante della società. Cosa ne sanno di cosa un atleta nero, di colore o pluriculturale, può sentire quando è oggetto di insulti? Cosa ne possono sapere del senso avvilente che le microaggressioni provocano in questi ragazzi e ragazze? Cosa possono capire delle ferite profonde che il razzismo e la discriminazione lascia nel profondo di queste anime?

 

 

Accettare i consigli di un comitato collaterale non è la stessa cosa che accettare i consigli di coloro che occupano le posizioni più alte di influenza e che determinano l’agenda. Nello sport, come nel lavoro, come nella scuola, come nella politica, chi detiene il potere è di norma bianco. E finché il razzismo (istituzionalizzato o  strutturalizzato che sia) rimarrà solo un problema secondario, che preferiremmo far sparire piuttosto che cercare di risolvere, rimarrà. In una società prevalentemente bianca, con un dominio di voci bianche che stabiliscono l’agenda quotidiana delle notizie, non spetta a un bianco decidere cosa sia razzista e cosa no.

 

 

In questo momento, ci sono giovani neri, di colore e pluri-culturali che stanno fallendo a livello accademico, soffrono emotivamente e/o, in alcuni casi, corrono seri rischi, perché i fattori specifici della popolazione che influenzano la salute mentale sono troppo poco compresi e non si interviene. Stiamo agendo. Nel sottobosco, ancora (perché pochi ci danno credito sull’importanza di lavorare in questa direzione), ma stiamo agendo. Penso che per un Mentor o un Mental Coach lavorare insieme a atleti di colore diverso dal bianco sia una delle sfide più traumatiche che possa affrontare, soprattutto e particolarmente, se lui/lei stessa è un professionista di colore diverso dallo standard dominante, bianco o nero sia.

 

 

Eppure, come Senior Mentor Mixed, mi sono impegnata a dar voce a questi ragazzi e ragazze, a fornire e costruire una cultura più forte e più sana in cui ogni atleta (amatoriale o professionista sia) o allenatore può essere, non solo fisicamente in forma, ma anche mentalmente presente acquisendo saggezza, strumenti e sostegno per partecipare attivamente al miglioramento del proprio benessere mentale ed emotivo. Il tutto con la consapevolezza che gli atleti di colore diverso dal bianco hanno identità che si intersecano, quindi, oltre a questo e davanti all’evidenza, si chiedono se il contesto in cui vivono e i loro rappresentanti diano valore alla loro identità. 

 

Momo è davvero in difficoltà. Vive una sorta di burnout in cui lo stress è diventato così alto e il divertimento è diminuito così tanto che ha deciso di ritirarsi dal gioco. Le aspettative su di lui sono altissime e lui è entrato in un loop da ansia di prestazione. La sua storia è particolarmente difficile, ma come tutti i grandissimi campioni, trovo sia un bellissimo punto a suo vantaggio. Devo solo capire come trasformare quel senso di inadeguatezza che prova. Ho sempre pensato che il dolore sia debolezza che lascia il corpo, non un segnale al sistema nervoso che qualcosa non va. Pochissimi riescono a gestire questo intorpidimento e a modellarsi in un modo che possa essere di successo; trasformare in trionfi le proprie tragedie richiede un lungo e lento lavoro introspettivo ma è necessario farlo se non si vuole che questa vacuità gridi aiuto per tutto il resto della propria vita.

 

 

Essere neri è così difficile in questo momento. È come se importasse solo quando qualcuno muore e che le telecamere lo mostrino … eppure molti di noi dimostrano ogni giorno di aver bisogno di aiuto. … Tutti qui fuori hanno bisogno di aiuto e tutti se ne vanno in giro come se avessero tutto sotto controllo. Oggi ho deciso di lasciare andare il gioco che ha costituito gran parte della mia identità. Qualcosa che ha guidato il mio cammino da quando ho mosso i primi passi. Se da un lato ho raggiunto risultati straordinari, creato ricordi indimenticabili e stretto amicizie per tutta la vita… dall’altro ho vissuto i momenti più bui della mia vita. Al punto che, invece di costruirmi, ha cominciato a distruggermi. Ho iniziato a disprezzare e a mettere in dubbio il valore di me stesso, molto più di quanto chi mi circondava potesse mai vedere o sapere”.

 

 

BINGO! Tralascio i particolari di questa storia ma da questa riflessione, Momo mi ha dato l’assist (ed il permesso) di andare più a fondo. Abbiamo sicuramente compreso che ha bisogno di molto aiuto. E questa consapevolezza è fondamentale. E’ un inizio, come lo è la dignità personale. Abbiamo compreso che dobbiamo lavorare molto sul suo benessere e la propria salute mentale (da non confondere con la malattia mentale); uno stato di benessere in cui un individuo si rende conto delle proprie capacità, ed è in grado di affrontare il normale stress della vita e lavorare in modo produttivo.

 

 

Gli atleti razzializzati hanno bisogno di sostegno e protezione, dagli attacchi razziali alla comprensione culturale. E ne hanno bisogno dai loro Coaches, dai loro dirigenti e da tutti coloro che gravitano attorno a loro. Persone che sappiano come gestire la situazione invece di rivolgere tutta la propria ignoranza e frustrazione verso i propri atleti aggravando la solitudine di ogni singolo atleta. Allenatori e Atleti, insieme, dovrebbero ricevere l’istruzione e la formazione di cui hanno bisogno e che meritano. Esiste già un piano strategico che enfatizza l’equilibrio di genere nello sport, ma non presta altrettanta attenzione alle questioni di razza e discriminazione. Ed è per questo che ho deciso di lavorare ANCHE insieme a Coach Mario in un combo di sessioni individuali one:one e individuali.

 

 

Nonostante la correlazione apparentemente positiva tra partecipazione sportiva e salute mentale, la relazione tra le due cose è piuttosto complicata. I giovani di colore diverso dal bianco sono esposti a maggiori fattori di rischio per la salute mentale a causa dell’oppressione sistemica storica e continua. La rappresentazione limitata dell’eccellenza dei neri (esposta con i dovuti criteri ) in campi diversi da quello sportivo può causare in loro una maggiore pressione.

 

 

Nonostante la sovra-rappresentazione in alcuni contesti, gli atleti di colore si trovano ad affrontare ostacoli in ambito sportivo sotto forma di disuguaglianza nell’accesso alle risorse, insegnanti e allenatori meno qualificati,  razzismo palese e microaggressioni razziali. Le aggressioni razziali e i messaggi oppressivi nei media possono contribuire all’autostima negativa e ai sintomi depressivi negli adolescenti. I giovani di colore che partecipano allo sport affrontano non solo barriere legate alla loro identità razziale, ma anche alle sfide di salute mentale specifiche dell’atleta, legate alla continua valutazione di sé stessi e degli altri, tra cui depressione, ansia, uso di sostanze e i disturbi alimentari.

 

 

Che succede in realtà nell’ambiente sportivo?

 

 

Lo sport è ideologicamente carico dell’idea di meritocrazia. L’enfasi sul duro lavoro, sul talento e su un atteggiamento “che non si arrende mai” fornisce un quadro conveniente per spiegare i successi e i fallimenti, sia sul campo da gioco che fuori. Queste influenti idee meritocratiche enfatizzano il ruolo dell’individuo nel plasmare il proprio destino sportivo e possono ridurre l’attenzione sulle strutture sociali che hanno la capacità di concedere e negare l’accesso alle opportunità sportive. In questo modo si costruisce un ordine naturale in cui gli individui sono considerati in grado di controllare il proprio destino e sono responsabili in ultima istanza dei risultati ottenuti nello sport, senza essere condizionati da barriere o influenze sociali.

 

 

L’approccio meritocratico può anche informare sugli atteggiamenti verso le questioni di “razza” e razzismo nello sport. È spesso associato a una visione di colorblindness (daltonismo del “non vedo colore” ), per cui lo sport è visto come intrinsecamente equo e accessibile, negando l’esistenza di disuguaglianze razziali e sminuendo il significato delle idee di “razza” nel plasmare le esperienze delle persone. Serve anche a evitare di concentrarsi sugli assetti di potere razziali che possono esistere nello sport, anche nei contesti di coaching sportivo, dove i bianchi dominano e le persone minoritarie sono spesso sottorappresentate ed escluse, soprattutto nello sport d’élite.

 

 

Un modo per considerare la continua influenza delle idee di “razza” nei contesti di coaching sportivo è attraverso il concetto di bianco, che è diventato un’area di analisi sempre più importante nella ricerca sullo sport. Patel afferma che “la bianchezza non si riferisce semplicemente alle caratteristiche fenotipiche e all’origine, ma piuttosto a strutture complesse di potere, diritti e status“. Si sostiene che il sistema razziale che esiste nello sport ha contribuito a creare un posizionamento sociale in cui l’essere identificati come bianchi consente il privilegio sociale, culturale ed economico a scapito degli “altri” minoritari. L’impatto del privilegio bianco in questi ruoli nello sport è che chi detiene il potere è “non razziale”, un individuo e la norma.

 

 

La bianchezza diventa “normalizzata” in quanto il privilegio razziale diventa così di routine da risultare invisibile a coloro a cui conferisce potere. A loro volta, le istituzioni diventano così profondamente razzializzate che i bianchi non vedono o riconoscono i pregiudizi razziali; la preferenza è allora quella di vedere lo sport attraverso una lente del daltonismo “non vedo colore”. È attraverso questo pensiero collettivo, che si definisce “la cornice razziale bianca“, dove i sistemi di oppressione continuano a prosperare.

 

La posizione dominante del bianco è visibile in molti sport in tutto il mondo. Nel calcio italiano, per esempio, gli spazi di governance, di gestione e i ruoli fuori dal campo sono quasi interamente popolati da bianchi. Il calcio ha tradizionalmente costituito una “rete di vecchi ragazzi” controllata e plasmata da uomini bianchi anziani.

 

 

C’è anche da dire che  la meritocrazia attribuisce alle popolazioni minoritarie la colpa della mancanza di successo o di opportunità e non tiene conto del ruolo svolto dal razzismo strutturale e sistemico nello sport.

 

 

La bianchezza e la cornice razziale bianca hanno naturalizzato i sistemi di vantaggio e svantaggio razziale e hanno minimizzato l’importanza del razzismo. L’utilizzo di queste concettualizzazioni ci permette di valutare in modo più approfondito come gli allenatori possono essere percepiti dai loro partecipanti e viceversa. Per esempio, gli stereotipi di lunga data hanno contribuito a inquadrare i bianchi come coloro che comandano, i leader, i pensatori, i tattici. D’altro canto, gli atleti di minoranza sono fisicizzati come in possesso di capacità genetiche superiori, tra cui la velocità, la potenza e la forza. Sebbene questo possa essere percepito come uno “stereotipo positivo” o come un complimento, è radicato nelle false nozioni di differenza biologica tra i gruppi razziali che incornicia l’idea lavorino con i muscoli piuttosto che con il cervello.

 

 

L’inquadramento razziale che circonda gli atleti bianchi e neri attribuisce inequivocabilmente ai bianchi le qualità del duro lavoro, dell’intelletto e della determinazione. Questo inquadramento razziale è stato utilizzato per spiegare il fenomeno dell’ “accatastamento razziale”  in sport come il cricket, il calcio e il football americano  e la scarsità di manager e allenatori neri. (***Racial stacking noto anche come segregazione posizionale, accatastamento posizionale o semplicemente accatastamento è un termine sociologico e un concetto sportivo che riguarda il modo in cui gli atleti possono essere collocati, o “accatastati”, in una determinata posizione sulla base di stereotipi razziali o etnici. Spesso i giocatori bianchi sono sovra rappresentati nelle posizioni definite “centrali” o “pensanti”, o in quelle considerate basate sulla leadership. Nel frattempo, le minoranze razziali sono sovra rappresentate nelle posizioni “periferiche” o “di abilità”, che si basano maggiormente su velocità, dimensioni e capacità atletiche) “.

 

 

In breve, l’uso di “razza” e l’uso delle idee su di essa, – consapevolmente o meno – possono perpetuare le disuguaglianze strutturali. È quindi indispensabile che le istituzioni sportive offrano soluzioni, comprese le politiche, per affrontare questi problemi.

 

 

Che fare dunque?

 

Moltissimo. Ma inizierei da due direzioni, coinvolgendo gli atleti di colore e i loro allenatori. Uno step basico ma dalle cui fondamenta posso nascere relazioni solide e un senso di fiducia reciproco.

Per promuovere il miglioramento della salute mentale dei giovani di colore, i programmi sportivi dovrebbero identificare chiaramente gli obiettivi in termini di misure quantificabili e qualificabili – a livello di programma e di partecipanti. Hanno il dovere di proteggere i propri atleti e devono riflettere regolarmente sulla propria struttura interna e sulle proprie politiche per fornire il miglior supporto possibile. Devono anche aiutare i giovani partecipanti a stabilire obiettivi personali e specifici di salute mentale poiché si sono dimostrati più che efficaci.

 

L’alfabetizzazione alla salute mentale per i giovani di colore non dovrebbe limitarsi al cosa della salute mentale, ma anche al come. L’alfabetizzazione alla salute mentale è la conoscenza e le abilità che permettono alle persone di accedere, comprendere e applicare informazioni sulla salute mentale, che, ripeto, non è da confondere con la malattia mentale. La definizione pone maggiormente l’accento sull’empowerment per la salute, un concetto chiave nella promozione della salute e nella salute e l’alfabetizzazione sanitaria. In quanto tale, il miglioramento della salute mentale implica qualcosa di più che fornire semplicemente informazioni, ma anche il sostegno allo sviluppo di delle competenze e dell’empowerment, in modo che le persone possano comprendere le informazioni e prendere decisioni informate su come applicarle per promuovere la salute mentale.

 

Far comprendere ai partecipanti allo sport come la salute mentale e le  prestazioni mentali influiscono sulle prestazioni sportive, oltre a garantire l’accessibilità delle risorse per le persone con diverse abilità. E non tralasciamo come l’alfabetizzazione in materia di salute mentale serva a smantellare lo stigma associato alla salute mentale stessa dal momento che è più che risaputo (da studi e ricerche) che i giovani evitano di parlare del loro disagio emotivo e mentale  ad amici e familiari, credendo che sarebbero stati rimproverati o bullizzati. A causa della paura dello stigma da parte della comunità, i giovani di colore sono spesso costretti ad affrontare i loro problemi di benessere mentale da soli. Ecco che una maggiore alfabetizzazione e conoscenza della salute mentale porta a una minore stigmatizzazione, incoraggiando così i giovani a cercare aiuto quando necessario.

 

 

Sostenere lo sviluppo di identità forti

 

Gli sport di squadra possono aiutare i giovani a formare forti identità sociali e individuali. L’identità sociale è stata definita come quella parte del concetto di sé di un individuo che deriva dalla sua conoscenza dell’appartenenza a uno o più gruppi sociali, insieme al valore e al significato emotivo attribuito a tale appartenenza. I partecipanti con identità sociali più forti legate alla propria squadra e alle comunità sportive riportano livelli più elevati di gioia e successo nello sport contribuendo a una mentalità positiva.

 

Sebbene gli sport di squadra possono influenzare positivamente le identità sociali, è anche importante che contribuiscano alle identità individuali. Gli allenatori e i Mentori possono contribuire nella costruzione dell’identità individuale attraverso un rinforzo positivo, oltre a mettere i partecipanti in posizioni di leadership, in quanto i ruoli di leadership contribuiscono allo sviluppo dell’identità sia individuale che sociale.

 

Le persone coinvolte nel programma di Mentoring sportivo devono riconoscere l’intersezionalità dell’identità tra i giovani di colore. L’oppressione combinata di genere, orientamento sessuale e identità razziale può portare a conseguenze psicologiche, rendendo importante per allenatori e mentori creare spazi sicuri per l’espressione dell’identità nelle squadre sportive.

 

 

Questi ragazzi e ragazze possono trarre beneficio dalla socializzazione razziale in generale e dall’identità in particolare, in quanto sono stati associati a sentimenti positivi sull’essere di colore, che a loro volta sono stati correlati negativamente con i sintomi depressivi. Una forte identità personale e sociale portano a migliorare l’immagine di sé e la fiducia in sé stessi, riducendo al minimo il fattore di rischio di malattie mentali legate all’immagine.

 

 

Coinvolgere la famiglia, i compagni di squadra, allenatori e Mentori

Il supporto sociale come strumento per il miglioramento della salute mentale tra i giovani di colore non deve essere trascurato. Il supporto sociale per i sintomi depressivi ha un effetto mitigante sui fattori di stress della salute mentale. Gli allenatori e i Mentori sono incoraggiati a utilizzare le loro posizioni di cura e influenza per coinvolgere i compagni di squadra, i coetanei e i genitori o altri membri della famiglia in conversazioni e interventi mirati a migliorare la salute mentale e l’alfabetizzazione alla salute mentale.

 

Il sostegno della famiglia nella risposta alla salute mentale è particolarmente efficace nelle popolazioni appartenenti a minoranze etniche. Sebbene il supporto dei genitori/familiari sia importante per i giovani, molti genitori/famigliari non hanno la necessaria alfabetizzazione in materia di salute mentale per supportare adeguatamente i giovani, a conferma del fatto che le famiglie dovrebbero essere incoraggiate a partecipare a conversazioni mirate a migliorare la salute e l’alfabetizzazione alla salute mentale.

 

 

Garantire percorsi chiari per l’assistenza per la salute mentale

 

Le comunità nere subiscono continuamente discriminazioni e negligenze sproporzionate, con conseguente insicurezza delle stesse. Nonostante l’assistenza sanitaria universale dell’Italia, un bambino su cinque non è in grado di accedere all’assistenza sanitaria mentale di cui ha bisogno, e i bambini e i giovani di colore si trovano ad affrontare barriere ancora più elevate. La criminalizzazione della malattia mentale nei confronti di questi giovani scoraggia ulteriormente il comportamento di ricerca di aiuto, e la combinazione tra l’oppressione sistematica e la mancanza di salute mentale può portarli  a ricorrere all’uso di sostanze.

 

Per garantire che i giovani non siano scoraggiati dal cercare supporto per la salute mentale, risorse, compresi i riferimenti a programmi/organizzazioni pertinenti, dovrebbero essere ampiamente condivisi con con i partecipanti al programma. Gli allenatori, i Mentori e gli altri operatori del programma devono essere in grado di riconoscere segnali di allarme per la salute mentale e intraprendere le azioni necessarie. Esattamente come ha fatto Coach Mario con il caso di Momo.

 

 

Il vero ruolo del Coach/Mister

Dal punto di vista dei giocatori, è ben riconosciuto che l’allenatore svolge un ruolo centrale nel plasmare le esperienze dei partecipanti ed è un fattore comune nell’abbandono dello sport da parte dei giovani. Sono globale letteratura le ricerche per esplorare i modi in cui le idee di “razza” e razzismo hanno un impatto sul rapporto allenatore-atleta, soprattutto negli sport d’élite dove si è notato una dinamica di potere razziale che spesso si instaura tra allenatori bianchi e atleti minoritari, che spesso porta a esperienze spiacevoli per gli atleti.

 

Una recente indagine condotta da UK Coaching (e parliamo dell’UK dove la storia delle differenze culturali e razziali sono secolari!!) ha rilevato che il 36% degli allenatori bianchi ha dichiarato di avere una scarsa o nulla comprensione delle esigenze specifiche dei partecipanti BAME (Black, Asian and minority ethnic)  rispetto al 26% degli allenatori provenienti da ambienti BAME. Nello stesso sondaggio, i partecipanti provenienti da ambienti BAME hanno riferito livelli più bassi di soddisfazione nei confronti dei loro allenatori, in termini di fiducia (rispettivamente 80% e 86%). 

 

Si è quindi teorizzato che i coach provenienti da diverse origini etniche, culturali e religiose possano avere  una maggiore comprensione, apprezzamento ed empatia nei confronti dei giocatori minoritari. Questo significherebbe un impegno morale generale per l’uguaglianza e l’equità di trattamento (destabilizzando le reti “da bianco a bianco”), un essere un role model per gli atleti, educare altri allenatori (bianchi) alle esperienze dei gruppi minoritari e contribuire a sfidare i miti e stereotipi razziali.

 

Tuttavia, questa nozione di “corrispondenza etnica” nel coaching comunitario può essere problematizzata in diversi modi. Può avere l’effetto di reificare gli stereotipi e le differenze razziali, può aumentare la segregazione dei gruppi etnici nei contesti sportivi comunitari e non tiene conto delle potenziali carenze di competenze degli allenatori bianchi esistenti. C’è anche l’implicazione logica che gli allenatori bianchi sono quindi più adatti ad allenare partecipanti bianchi. In molte situazioni, ovviamente, il gruppo di partecipanti di un allenatore è probabile che includa persone di diverse origini etniche e sarebbe difficile difendere una posizione di questo tipo di segregazione etnica nello sport. Inoltre, un rozzo “abbinamento” etnico tra allenatore e partecipanti ignora la fluidità e la varietà all’interno e tra le comunità minoritarie.

 

Per esempio un allenatore indiano italiano di sesso maschile di etnia sikh può essere piuttosto lontano dalle specifiche esperienze culturali, religiose e di genere di una donna pakistana italiana musulmana. Pertanto, è fondamentale che gli allenatori minoritari non si posizionino semplicemente con le comunità “diverse”, partendo dal presupposto di esperienze condivise e di adeguatezza culturale. Ciò che sarebbe preferibile, quindi, è concentrarsi sui modi per garantire che tutti gli allenatori siano equipaggiati per contribuire a creare un ambiente sportivo antirazzista che permetta ai partecipanti minoritari di sentirsi al sicuro, di sentirsi sicuri, sostenuti e inclusi, indipendentemente dal background dell’allenatore o dalla diversità dei partecipanti.

 

 

Cosa rende un allenatore attento e inclusivo?

 

Una pratica di coaching attenta e inclusiva ha il potenziale per sconvolgere gli ambienti multiculturali di coaching sportivo e creare esperienze più inclusive per tutti. Come abbiamo visto, finora sono stati limitati i tentativi da parte delle organizzazioni sportive di concentrarsi sullo sviluppo di questo tipo di pratica tra gli allenatori sportivi.

 

Gli allenatori possono sostenere gli atleti razzializzati, le loro barriere e le sfide e il modo in cui non vengono valorizzati e l’intersezionalità delle discriminazioni. Il razzismo, per esempio,  si manifesta nelle sue sfumature. Le intersezioni tra razza, classe e genere sono molto complicate e devono essere capite in un contesto più ampio come quello dello sport. Il rapporto tra gli atleti e i loro allenatori potrebbe  contribuire a un sistema problematico, soprattutto quando il sistema attuale presuppone che gli allenatori sappiano tutto. Gli atleti guardano agli allenatori come se sapessero tutto e potessero risolvere ogni problema. Ma ci sono anche barriere e casi in cui gli allenatori cercano di mobilitare i loro colleghi a prendere sul serio l’antirazzismo, o che hanno bisogno di accedere a politiche che non esistono.

 

 

I Coach potrebbero sentirsi impotenti o non sentirsi istruiti o supportati per svolgere un lavoro sull’autostima dei propri atleti, né, tanto meno, entrare in spazi dove riconoscere l’intersezionalità sulle questioni di razza, identità di genere, classe e il modo in cui possono intersecarsi. Né potrebbero essere in grado di identificare e intervenire sulle microaggressioni o su come possono sostenere gli atleti a smantellare i sistemi razzisti, sessisti o omofobici.

 

La cultura dominante dello sport in Italia è bianca, maschile ed eteronormativa, ma questo non rappresenta ciò che lo sport in Italia è in realtà. C’è una predominanza di uomini bianchi nelle posizioni di potere e si dovrebbe guardare a loro per guidare il cambiamento della cultura. È fondamentale dare potere a coloro che sono razzializzati e garantire che tutti abbiano le stesse informazioni.

 

C’è necessità di un allineamento sistemico dove gli allenatori possano diffondere queste informazioni ai loro atleti in modo che possano agire nel modo più performante possibile. Lo sport è una risorsa così ricca per trasformare le culture più ampie e porre l’attenzione anche su un linguaggio e una terminologia che venga, creando, appunto,  un allineamento sistemico tra gli sport che deriva dal flusso di informazioni.

 

Il settore dello sport ne ha tanto bisogno. Siamo una nazione sportiva. Lo sport deve essere un luogo in cui le persone vengono, vivono un’esperienza positiva e si sentono al sicuro. Deve essere un luogo in cui le persone si presentano e si divertono.

 

E ringrazio le persone che, come Coach Mario, hanno compreso la pericolosità di quella sottile linea che divide gli atleti razzializzati, discriminati e bullizzati da quelli così detti “dominanti” ed hanno pensato a me, dandomi piena fiducia nel mio ruolo di Senior Mentor e guida su queste problematiche. Sicuramente posso portare la mia esperienza come atleta, guida e Mentor razzializzata e guidare in un percorso che ci accomuna e che può dare un senso profondo alla scoperta di sé.

Con Coach Mario abbiamo lavorato molto sull’importanza non solo di far crescere i giocatori dal punto di vista tecnico, ma anche di farli crescere come persone, ispirandoli e infondere fiducia in loro in modo che possano aspirare a raggiungere il successo nella loro vita. E’ stato molto importante, per me, fargli capire quanto sia fondamentale realizzare che ci sono dei disequilibri basati sul stereotipi e pregiudizi tra atleti monoculturali e quelli pluriculturali e questo porta inevitabilmente a dover creare un ambiente non discriminatorio, accogliente, sicuro e inclusivo in cui i giocatori appartenenti a minoranze si sentano a proprio agio. Coach Mario deve riflettere profondamente sulle supposizioni che potrebbe fare e se sono tratte da osservazioni effettive di quel giocatore o da stereotipi sociali più ampi.

 

La creazione di un ambiente inclusivo non inizia quando viene calciato il primo pallone o quando inizia il riscaldamento; inizia conoscendo e comprendendo i giocatori in anticipo. Più un allenatore capisce i suoi giocatori – il loro background, le loro pratiche culturali e/o religiose, il loro ambiente domestico, scolastico e sociale – meno è probabile che li metta in situazioni imbarazzanti o scomode. Questa conoscenza può dare forza all’allenatore e farlo sentire più sicuro di sé e meno preoccupato di offendere inavvertitamente i giocatori o i genitori con ciò che dicono o fanno.

 

Un altro punto su cui ho lavorato con Coach Mario è il Background sportivo: un allenatore dovrebbe aspirare a comprendere le esperienze sportive pregresse dei propri giocatori e fare attenzione a non pretendere indefessamente,  una “alfabetizzazione sportiva”, cioè la conoscenza delle regole, delle norme e delle aspettative di uno sport. I giocatori possono provenire da un ambiente in cui lo sport organizzato e strutturato non è loro familiare – potrebbero essere più abituati a versioni più informali degli sport, dove spesso si applicano regole e galatei diversi. È è buona norma che gli allenatori comunichino regolarmente con i genitori e che dedichino un po’ più di tempo ai genitori dei nuovi giocatori, informandoli sugli orari, i luoghi, ciò che il giocatore può aspettarsi, e anche cosa si aspetta l’allenatore in termini di comportamento dei giocatori, che dovrebbe includere il sostegno attivo ai valori dell’antirazzismo. Questo può aiutare il genitore a sentirsi a proprio agio, sapendo che qualcuno ha veramente a cuore l’interesse del proprio figlio.

 

Una volta iniziata la sessione, c’è poi da affrontare la questione della discriminazione. Quando si lavora con giocatori minoritari, c’è sempre la possibilità che si verifichino discriminazioni razziste e di abuso – da parte di giocatori, genitori, allenatori e altre persone – anche all’interno della propria squadra o club. Se un allenatore è testimone di discriminazioni o abusi razzisti, o se gli vengono riferiti da qualcun altro, deve agire e gestire la situazione in modo coerente. I giocatori guarderanno alla reazione dell’allenatore alla discriminazione e questo può dare loro fiducia e sicurezza.

 

Nota importantissima: barriere linguistiche e sfumature culturali del linguaggio. È importante non dare per scontato che tutti i partecipanti abbiano familiarità con il “gergo” o il linguaggio specifico dello sport. Gli allenatori devono cercare di evitare l’uso di questo linguaggio, o almeno verificare che i partecipanti conoscano il significato di questi termini. Se l’italiano non è la loro prima lingua, gli allenatori possono utilizzare altri ausili, come spunti visivi, per aiutarli a imparare e a incorporarli nella loro attività. E’ poi importantissimo apprezzare le sfumature culturali del linguaggio; ad esempio, molti giovani giocatori si riferiscono ai Coach  chiamandoli “signore”, il che riflette una pratica culturale di rispetto degli anziani. Dire ai giocatori di chiamare un allenatore con il suo nome di battesimo può causare disagio, nonostante le migliori intenzioni. È importante adottare un approccio flessibile e comunicare con i giocatori per stabilire queste norme linguistiche. Fare uno sforzo in più per sapere come si pronunciano i nomi di tutti i giocatori li aiuterà a sentirsi benvenuti e apprezzati.

 

Con Momo, invece abbiamo fatto un lavoro ben più profondo incentrato sulla sua identità culturale in simbiosi con quella acquisita e su come rispondere ai vari stimoli che lui recepisce come negativi dal suo Coach e dai suoi compagni di squadra.

 

Il  mio obiettivo con ambedue è stato quello di introdurre alcuni suggerimenti per aiutare a sviluppare quella che definisco una pratica di coaching antidiscriminatorio tra gli allenatori. Ho proposto una serie di linee guida di buone pratiche che possono aiutare gli allenatori a creare un ambiente in cui i partecipanti appartenenti a minoranze si sentano sicuri, accolti e inclusi. Ho contestualizzato questa guida alle buone pratiche in una panoramica dei principali approcci teorici e nella comprensione dell’influenza delle idee di approcci teorici chiave per comprendere l’influenza delle idee di “razza”, bianchezza e razzismo sistemico in un contesto sportivo. Ho cercato di offrire una valutazione più critica di questi temi rispetto a quella che si trova comunemente, sia nella cultura sportiva di tutti i giorni che in gran parte del mondo.

 

 

Vi invito a  riflettere su come questo approccio specificamente antidiscriminatorio possa contrastare con le percezioni, gli atteggiamenti e gli approcci dominanti al Mentoring che possono aver incontrato, in particolare in relazione al coaching di partecipanti etnicamente diversi. Per esempio: in che modo il concetto di bianco vi ha fatto riflettere sulla pratica del coaching sportivo (compreso il vostro)? Perché pensate che le politiche di uguaglianza razziale nel coaching sportivo non siano sempre considerate necessarie dalle organizzazioni sportive e quali sfide potrebbe comportare? In che misura la mia guida alle buone pratiche si adatta al vostro contesto? Adattando i suggerimenti sulle buone pratiche qui forniti stilate una lista di 5 consigli che consigliereste a un allenatore nel vostro sport specifico.

 

Luisa Casagrande | EDGEWALKER, Business Executive, Senior Consultant, Trainer & Cultural Diversity Mentor | Co-Founder & CVO Dolomite Aggregates™ Nig. LTD | Founder Métissage Sangue Misto™ & Métissage Dynamics© | Experiences Developer

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